Narrare è umano, comunicare è inclusivo
“Sei una donna con le palle”. Chi non l’ha mai detto, alzi la mano. Ci sono espressioni linguistiche che inconsapevoli sfuggono alla nostra mente, poi alla nostra bocca, contribuendo a ingigantire una sovrastruttura mentale tossica. L’esclamazione appena citata, per esempio, ci racconta che la donna non è forte quanto un uomo: le servono gli attributi maschili.
Ti sembra una considerazione un po’ severa?
Partiamo dall’infanzia. La società si aspetta che le bambine siano dolci e carine, i bambini forti e coraggiosi — da queste attitudini conseguono gestualità, giochi, attività sportive e altri passatempi, condizionando ogni aspetto della vita. Pensiamola un po’ così: li stiamo conducendo in un viaggio percorso su due binari e senza incroci; crescendo continueranno a comportarsi come è stato loro insegnato, rispecchiandosi in una realtà che ripete la stessa favola.
E anche se nei neogenitori di oggi tutto questo è probabilmente più attenuato, continuiamo a subire l’eredità del passato.
Resta, dunque, un potente freno a mano che agisce sulla libertà personale. Perché? Perché vivere in un mondo basato su due rigide categorie limita lo spazio entro cui muoverci: agli occhi delle persone, uscire da quella categoria (con molte probabilità) sarà sbagliato, strano, diverso, inaccettabile, problematico, malato.
“Un ometto non piange”: con la sua leggerezza espressiva e le sue buone intenzioni, questa frase si porta via le emozioni dei futuri uomini adulti, li priva di una incredibile dote umana: il pianto.
È opportuno accettare il passato tanto quanto prendere atto di un presente che è ben più complesso, e allenarci a essere flessibili. Lo stereotipo non è il problema, lo diventa quando “non esiste altra realtà al di fuori dello stereotipo”, suggerisce Hella Network alla Commissione Pari Opportunità del Comune di Torino.
Il sistema di pensiero, i riferimenti condivisi, vanno ripensati sulla persona, sull’essere se stessi.
Il femminismo è anche una cosa “da maschi”
Il femminismo è una tra le altre richieste di aiuto per una società più equa e più sana.
A volte ci imbattiamo in un pensiero distorto che lo dipinge come quel filone che pone la donna su un piano superiore rispetto al genere maschile; una lettura che non porta la dissoluzione del gender gap e riveste questo movimento di una natura fortemente contraddittoria. Il femminismo, infatti, non è misandria: è l’espressione della battaglia per colmare il diviario di genere, che porta sul tavolo del dibattito le problematiche ereditate dalla società patriarcale e le relative soluzioni.
In passato, il femminismo chiedeva che le donne potessero essere considerate più che mamme e casalinghe. Oggi chiede che abbiano la libertà di essere ciò che desiderano.
Mamme e lavoratrici.
Mamme.
Lavoratrici.
Quando ci sono gli strumenti, si può scegliere di essere ciò che si vuole. Il recente movimento italiano Il Giusto Mezzo si pone di creare le condizioni perché una donna possa compiere la propria scelta: per renderlo possibile servono i mezzi giusti. Il movimento si batte per ottenere “politiche strutturali e integrate” e pone l’accento sull’inutilità degli interventi frammentari da parte dello Stato: il problema è troppo complesso, è strutturale. “In alcune zone del Paese gli asili nidi mancano, ed è la principale ragione che frena l’occupazione femminile”, per non parlare dell’impari stipendio che porta la donna a essere il membro familiare più economicamente sacrificabile. Le donne, dice il movimento, non sono adeguatamente rappresentate nelle task force decisionali e questo incide sui provvedimenti che riguardano il tema.
Il femminismo è anche una cosa “da maschi” perché combatte lo schema rigido dei ruoli prestabiliti.
Combatte lo schema di quei compiti e quelle responsabilità che spettano prettamente alla donna oppure all’uomo: un problema che li vede entrambi coinvolti, a loro modo. Un esempio? Consideriamo il diritto alla paternità: ampliarne il periodo — ad oggi in Italia è di 10 giorni — darebbe la possibilità alla donna di rientrare nel mondo del lavoro con anticipo e all’uomo di riappropriarsi di un po’ del suo tempo come genitore. Qualora lo desiderassero.
Parlare è pensare
La comunicazione gioca un ruolo importante nella narrazione inclusiva. Il linguaggio è un codice dinamico tra esseri umani, nasce dall’esigenza di dare i nomi alle cose e inquadrare la realtà.
Per la filosofia antica, il nome era “connaturato” alla cosa e l’affermazione del carattere convenzionale del linguaggio arriverà nel V secolo, con i sofisti e soprattutto con Platone, il quale nel Cratilo afferma che la “dicibilità” è uno strumento indiscutibile della ragione “e, nelle sue partizioni e strutture, riflette partizioni e strutture della realtà”. In età moderna, pensatori come Hobbes, Berkeley, Hume, Hamann assumono che le forme linguistiche condizionano le elaborazioni concettuali, il pensiero.
Ludwig Wittgenstein, filosofo austriaco del XX secolo, che di linguaggio ne ha parlato a lungo, diceva che noi abbiamo percezione del mondo attraverso i sensi, attraverso il pensiero, ed esprimiamo quest’ultimo con il linguaggio. Se dunque il mondo è il riflesso del linguaggio, studiando il linguaggio si può capire com’è fatto il mondo.
Torniamo dunque a noi. Se il linguaggio ha il potere di costruire e trasmettere la cultura, in mezzo alla brigata di strumenti che abbiamo a disposizione con questo scopo, diventa importante considerare il ruolo delle parole e delle espressioni linguistiche nel condizionare — consciamente o inconsciamente — i nostri schemi cognitivi.
Apriamoci a nuove narrazioni per rispondere al mondo complesso che è là fuori. Dopotutto, ci siamo dentro — con tutti noi stessi.
Ne siamo responsabili come individui e come persone che hanno fatto della loro professione il comunicare. Giornalisti e giornaliste, “nel rispetto della verità sostanziale dei fatti”, per etica professionale dovranno fare buon uso delle parole; pubblicitari e nuovi cantastorie rappresenteranno una realtà in cui identificarsi ponendosi una domanda semplice: questa comunicazione può dare fastidio a qualcuno? Può ledere la dignità di alcune persone? Se la risposta è sì, è opportuno fare dietrofront e rimediare. E poi guardarsi dentro, riconoscendo i limiti del processo. Un po’ come è successo recentemente al Sole 24 Ore.
Il cambio di narrazione riguarda, perciò, fatti e parole, immagini e immaginari, sovrastrutture e strutture.
L’inclusività parte dai governi, dal modo di comunicare di aziende e di media.
L’inclusività parte dall’individuo che, al posto di “abbi le palle”, potrebbe usare espressioni come “sii una donna/un uomo/una persona forte” oppure “tira fuori la grinta”; e invece di dire a un bambino di non piangere per dare poco peso a un piccolo incidente, potrebbe stimolarlo nel riconoscere le proprie emozioni.
È tempo di spogliarsi delle scorciatoie mentali che imprigionano la società, e con sé le persone, in una dolorosa penitenza.
Ringrazio il workshop organizzato da IF!, “Le parole che fanno la differenza” presentato da Stefania Marinangeli e Stefania Siani, che mi ha dato ispirazione e fornito importanti nozioni. Grazie ad altre fonti: Hella Network per il progetto che portano avanti, Treccani.it e Rai.it.